È difficile spiegare a parole cosa siano la Missione e il volontariato. Immagino ci vogliano anni per maturare la consapevolezza del nostro ruolo tra le persone bisognose.

Mi chiamo Sara, sono nata in Sardegna, ho 24 anni e studio medicina. Non ho sempre saputo di voler diventare medico, ma ho sempre desiderato voler aiutare gli altri.

Sono qui per una chiamata avuta da bambina, che era un po’ finita nel “dimenticatoio”, come un seme sotterrato sotto strati di paure e insicurezze.

Ho un ricordo, da piccolina, molto vivo, di me che guardo alla televisione dei bimbi in Africa e delle suore missionarie che si prendevano cura di loro. Questi bimbi erano felici, avevano trovato l’amore e una famiglia. Ricordo che piangevo e sentivo una forte emozione. Allora pensavo di voler diventare una Suora Missionaria.

Con il tempo la mia vita e i miei desideri sono cambiati, ma la missione è rimasta un sogno nel cassetto, quelli che hai paura di dire a voce alta, ma che tornano ogni tanto a ricordarti che forse sei chiamato a qualcosa di diverso dalla vita frenetica, individualista, e a volte egoista che siamo abituati a vivere.

L’opportunità di partire è arrivata per caso e in un momento turbolento della mia vita. Sono arrivata a Bozoum, Repubblica Centrafricana, il 27 luglio, con un gruppetto eterogeneo e curioso “capitanato” da P. Davide e P. Marco.

Ognuno aveva il suo compito, complementare a quello dell’altro: il mio era quello di affiancare Marius, l’infermiere africano del dispensario, e aiutarlo a gestire i numerosi pazienti insieme a Francesco, anche lui infermiere già laureato. Antonella e Dario svolgevano lavori manuali, Alessia faceva lezione ai bimbi e aiutava Guido traducendo per lui mentre teneva un corso di informatica.

Non sono mai partita con l’intento di cambiare la vita a qualcuno, né di salvarla, perché non ne avrei mai avuto le capacità, ma trovarsi di fronte alla sofferenza vera e non poter fare nulla è comunque molto duro e difficile. L’impotenza e la tristezza sono i sentimenti che è quasi fisiologico provare nel vedere gli occhi di chi cerca un aiuto che tu non puoi dare.

È sorprendente vedere che i malati fossero comunque pieni di gratitudine, fiducia, rispetto per averli ascoltati e averci provato, o anche solo per avergli tenuto la mano.

Forse il ricordo più vivido che mi porterò dietro sarà quello di Elsie, una bimba affetta da anemia falciforme che veniva al dispensario perché stava troppo male e la sua famiglia aveva finito tutti i soldi per le sue cure. Appena abbiamo potuto l’abbiamo mandata all’ospedale di un’altra missione, con un bacio sulla fronte e una preghiera. Due settimane dopo è tornata ed è venuta a salutarci, quasi non l’abbiamo riconosciuta da quanto stava bene, ma gli occhietti erano gli stessi, grandissimi e profondi, di una bimba che, a soli 7 anni, sa cosa sia la sofferenza ed è stata vicino alla morte, ma proprio per questo conosce il valore della vita.

Sono arrivata con le valigie mezze vuote e torno con il cuore pieno perché le persone di Bozoum sono evidentemente diverse da me, ma non si tratta di essere migliori o peggiori: loro “vincono” nel riempirti il cuore con l’amore, il rispetto, l’accoglienza proprio perché sei diverso. Alcune persone ci hanno accolto nella loro casa. Il gesto più semplice e bello era quello di offrirti sempre una sedia  su cui sederti. Non al padrone di casa, non al più anziano, non ai bimbi piccoli, ma a te, perché sei ospite. E non osare rifiutare: si offendono tremendamente. Hanno un senso di ospitalità che va oltre misura. Sono anche curiosi, soprattutto i bambini, perché siamo strani e a volte non hanno mai visto un bianco. Non c’è malizia né sospetto nel loro sguardo, non dubitano di te fino a prova contraria, e questo è un regalo che non ha prezzo.

È sicuramente vero e problematico che la società e l’economia del paese siano in difficoltà, così come che la sanità abbia enormi lacune e che le persone non conoscano le norme igienico sanitarie che per noi sono pratiche di vita quotidiana.

Perciò anche se non ho dubbi che loro abbiano dato a me più di quanto io abbia dato a loro, sono felice di aver avuto il privilegio di aver aiutato a medicare tante piaghe e ferite, insegnando ai malati come fare a prendersene cura anche da soli in futuro.

La mia Africa è stata difficile e bellissima, ma io ora posso tornare a casa mia, dove la vita è innegabilmente più facile. Loro restano qui, e la loro vita va avanti come prima, ma forse, il senso della missione, è quello di lasciare un seme che loro possano far crescere anche quando tu non ci sarai.

Sara Irde, studentessa di Medicina