Quando negli anni ’70 i Frati Carmelitani partirono da Arenzano per fondare una missione in Centrafrica, mi appassionava ascoltare i loro racconti. Desideravo anch’io andare in quella terra, ma le ore di volo, le possibili malattie e gli amici che mi mettevano in guardia da mille pericoli, mi trattennero per anni. Fino a quando riposi ogni mia titubanza nella braccia di Gesù e partii.

Il mio non era un viaggio da turista curiosa, ma volevo entrare in punta di piedi nel quotidiano della vita della missione e della gente comune.

Sono arrivata in Repubblica Centrafricana su strade polverose e dissestate. I primi ricordi sono i suoni, gli odori, le tenui luci della sera, le abitazioni costruite con mattoni di terra cotti al sole e con il tetto di paglia o lamiera, ma anche gli sguardi di tanti bambini che mi venivano incontro curiosi, i giovani che mi ponevano domande, il fiero e dignitoso portamento delle donne centrafricane. Insomma, ho subito avvertito che non ero nata io in Africa, ma era l’Africa che nasceva in me.

Ricordo, a Bozoum, il corpo senza vita di Etienne, giovane padre di tre bambini, che la moglie aveva abbandonato portandosi dietro la figlia più piccola. Ricordo la sua misera casa di meno di tre metri per tre, che mi ha fatto pensare che – se Gesù tornasse sulla terra –sceglierebbe di vivere in Centrafrica, uno dei paesi più poveri del mondo, all’ultimo posto nella classifica ISU.

Non potrò dimenticare le parole di Suor Anne Marie, congolese, Figlia della Misericordia, missionaria in vari paesi poveri del mondo: mi confidò che, giunta in Centrafrica, aveva capito che era la “sua” terra, quella in cui il Signore l’aveva chiamata a servirlo perché povera e sofferente. La stessa Suor Anne Marie me l’aveva detto, allargando le braccia, di fronte alla gente che ogni mattina giungeva al cancello della casa per essere ascoltata o ricevere una piccola elemosina: «Queste sono le mie Beatitudini!».

Ho incontrato Gesù nelle bambine orfane Melvia e Prudence, nei piccoli Stephan e Dunel, in Nicolas, cieco, che aveva improvvisato una canzone sulla rudimentale cetra fabbricata da lui; ho abbracciato Gesù in Gauthier che alla domanda “come va?” risponde sempre sorridente: “Bien!” nonostante sia su una sedia a rotelle, solo al mondo, ma circondato dalle attenzioni della comunità parrocchiale. Mi sono vergognata delle lamentele per i miei piccoli malanni.

Ho incontrato Gesù in un uomo che mi ha spiegato il torto subito per colpa di un vicino che gli aveva rubato il terreno, unica fonte di sostentamento, dicendomi che non chiedeva giustizia, né denaro, ma soltanto una preghiera per lui.

«Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore» diceva Santa Teresa di Lisieux. Ed io, nel “cuore dell’Africa” (è questo il nome di questo Paese in lingua sango) ho messo tutta me stessa, con le mie abilità e i miei limiti, a servizio dei missionari e dei poveri che ho incontrato nelle varie circostanze, persone piene di speranza in un Centrafrica ancora lacerato, desideroso di “siriri”, pace in sango.

Ho sperimentato la riconoscenza di tante persone povere, capaci di privarsi anche del necessario per donarlo all’ospite. Lì ho sperimentato la gioia del dono senza riserve di una maternità spirituale, ricolmato da tanto amore e tenerezza.

Avrei voluto rimanere in Africa, ma il Signore mi ha fatto comprendere che la mia missione è là dove Egli mi ha posta: nel mio lavoro e in famiglia. Tornata a casa, so che non devo sprecare la lezione imparata in quei giorni di grazia.

Maria Cottone