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Uno zaino pieno di libri e di entusiasmo, il sorriso dell’ottimismo e la fede nel cuore: così fra’ Régis-Marie Temanda esce dal Seminario Arcivescovile di Genova, dove studia Teologia, per raggiungere il santuario di Gesù Bambino di Praga di Arenzano ed essere intervistato per Amicizia Missionaria.
Fra’ Régis, classe 1990, è in Italia dal 2018 per completare i suoi studi, tra pochi giorni diventerà Diacono e il suo desiderio più grande è poter tornare in patria, il Centrafrica, per aiutare la sua gente. A stargli a cuore, soprattutto i giovani come lui che possono contribuire a dare al loro Paese un futuro migliore. Il messaggio di fra’ Régis è che le cose possono davvero cambiare con la fede e l’istruzione: lui ne è testimone, poiché anche la sua vita è cambiata in maniera che una volta sarebbe stata impensabile, grazie alle missioni carmelitane.
Qual è la tua storia, fra’ Régis?
“Sono originario di un piccolo villaggio nel sud ovest del Centrafrica, vicino al confine con il Congo. Se fossi rimasto lì difficilmente avrei avuto un futuro”.
E poi cos’è successo?
“A otto anni mia mamma è mancata e sono dovuto andare da mia nonna che viveva a 100 km da Bangui. Qui ho frequentato la scuola elementare e media. Poi, a 13 anni, mi sono trasferito da mia zia, prima nella capitale e poi a Bouar. Qui, l’incontro con la missione: è stata la Provvidenza”.
Quali sono i primi ricordi?
“A Bouar vedevo i giovani seminaristi che studiavano, cantavano, giocavano a calcio, conducevano una vita sana nel segno del rispetto, della fede. A 15 anni allora mi sono candidato per entrare in seminario, quando ho ricevuto la lettera di ammissione non nego di aver avuto un po’ di paura”.
Per cosa?
“Per il mio carattere: sarei stato all’altezza? I miei parenti erano tutti felici, mio papà era stato catechista, per lui avere un figlio religioso era una grazia. Ma mia nonna pensava che io avessi un carattere troppo timido e irascibile, non credeva che potessi essere adatto alla vita del seminario. Si è convinta quando ha visto che, mentre ne parlavo, mi brillavano gli occhi. Allora ha capito che era il futuro che sognavo davvero, ed è stata contenta di appoggiarmi”.
Come ti ha cambiato la vita il seminario?
“Lo studio e la condivisione mi hanno aperto la mente, mi hanno insegnato la strada del confronto, del dialogo. E poi ho imparato il senso di responsabilità: ho iniziato con piccoli incarichi come la custodia degli utensili delle pulizie e poi, passo dopo passo, mi è stata affidata la direzione della corale, una grande prova per me che ho sempre amato la musica, suonando prima la chitarra e poi l’organo. Dopo la maturità sono entrato in convento per il noviziato, ricevendo il saio intorno ai 20 anni. Poi sono stato mandato a Bangui per studiare filosofia per tre anni, dopo i quali sono tornato a Bouar per un anno come formatore. Successivamente nei miei progetti c’era il Camerun, ma proprio mentre mi stavo preparando per partire mi è arrivata la proposta di venire in Italia per completare la mia formazione. Ho accettato subito, per me è una grazia la possibilità di arricchirmi ulteriormente: tra le materie amo soprattutto Sacra Scrittura, su cui sarà incentrata anche la mia tesi”.
Alla fine della tua formazione in Italia cosa ti aspetta?
“Il ritorno in Centrafrica, per far nuovamente parte della mia comunità. Nutro molta speranza soprattutto per la gioventù centrafricana, c’è tanta voglia di fare, molti ragazzi studiano e lavorano sodo per portare il loro contributo allo sviluppo. Avverto la volontà di cambiare mentalità, la vedo come una transizione positiva”.
In che modo dovrebbe cambiare la mentalità?
“I centrafricani dovrebbero aprirsi con più fiducia al progresso e alle novità. Il cambiamento, specie nell’ambito agricolo, a volte è visto con sospetto. Mi pare che sia una conseguenza della mancanza di informazione e di formazione, insieme all’impossibilità di accedere ai mezzi tecnici moderni. Di conseguenza, cambiare mentalità implica molto investimento umano e materiale, cioè economico. A riguardo, credo che la nostra missione stia facendo un lavoro considerevole grazie agli aiuti e alla collaborazione di amici e benefattori. Ma c’è ancora molto da fare. Infine, il concetto stesso di lavoro potrebbe evolversi: molti piccoli agricoltori si considerano ‘disoccupati’ perché di fatto non dipendono da un datore di lavoro. Non stimano, però, quello della terra come un lavoro a tutti gli effetti. Non è uno ‘scomodo’ fardello ricevuto in eredità. Si può ricavare davvero tanto dai campi con i giusti strumenti”.
Cosa ti lascerà questo soggiorno in Italia?
“Ho imparato tanto e ora sono più fiducioso nel futuro. Vorrei dunque lanciare due messaggi ai miei coetanei, uno agli italiani e uno ai centrafricani”.
Iniziamo con quello per i ragazzi del Centrafrica.
“È un invito all’impegno e a non dimenticarsi che il lavoro va di pari passo con lo sviluppo. In Centrafrica si dice ‘essere pigro come un bianco’, è ovviamente un pregiudizio: qui in Europa si lavora molto. Dobbiamo imparare a organizzarci, a ottimizzare tempo e risorse, accettando le novità”.
E quello per i giovani italiani?
“È un grande ringraziamento: sono stato ben accolto, ho trovato una fiamma viva di carità, benevolenza e generosità che va alimentata. Molti inoltre nutrono un vivo interesse nei confronti dell’Africa, c’è un grande desiderio di informarsi, di conoscerla meglio. A volte leggiamo notizie che fanno preoccupare sulla sorte dei giovani, specialmente dopo il difficile periodo della pandemia, ma io ho visto tanti ragazzi che si danno da fare e che lavorano per migliorare le cose anche qui. I giovani sono davvero la speranza per un futuro migliore, non soltanto in Centrafrica”.
Valentina Bocchino