Se c’è una cosa che non manca a P. Stefano Molon è la volontà di tirarsi su le maniche per cercare una soluzione a ogni problema. Pragmatico e capace di elaborare una visione precisa per il Centrafrica, è anche molto determinato: così tanto da capire fin da piccolo che avrebbe dedicato la sua vita alla fede, e da imparare il sango ancor prima di andare in Repubblica Centrafricana. Grande appassionato di flora e fauna p. Stefano, che è missionario da trent’anni e attualmente vice priore e direttore della scuola agricola di Bangui, sta contribuendo attivamente all’espansione della scuola agricola di Bangui e crede fermamente che il Centrafrica possa risollevarsi grazie all’agricoltura e all’allevamento. Insomma, non si ferma mai ed è un vulcano di idee.
P. Stefano, qual è la sua storia?
Sono il secondo di cinque fratelli e ricordo che già da piccoli giocavamo a dire messa. La mia è una famiglia molto religiosa e quando avevo 11 anni ho partecipato a un campo vocazionale organizzato dal Santuario di Arenzano: da lì è nato il mio desiderio di entrare nella Chiesa. Ero convinto, ma dapprima i miei genitori mi hanno chiesto di aspettare, pensando che fossi troppo piccolo per una decisione del genere. Ho impiegato due anni per persuaderli e finalmente, a 13 anni, mi hanno fatto entrare in seminario. La mia vocazione ha aiutato anche loro, è stata un dono della Provvidenza: hanno iniziato a frequentare più assiduamente il Santuario e questo ambiente sano ha giovato a tutta la famiglia.
Ha dimostrato una grande determinazione. Era convinto anche di voler andare in Centrafrica?
Assolutamente sì: dalla terza media sono entrato a far parte del gruppo missionario del Seminario, poi quando ero in terza liceo il Rettore, P. Domenico Rossi, è stato mandato in Centrafrica. Erano gli anni ’70 e abbiamo iniziato a scriverci, lui ci mandava le ultime notizie, eravamo molto legati e il suo modo di descrivere la Missione, allora agli inizi, mi attirava. Dopo il Noviziato ho iniziato a studiare autonomamente il francese con l’intenzione di andare in Repubblica Centrafricana e prima di partire per lo stage pastorale, a Yolé, avevo già imparato un po’ di sango, la lingua locale.
Poi cos’è successo?
Sono tornato in Italia per studiare Teologia e avrei dovuto passare un anno in Spagna ma sono stato richiamato in Centrafrica: a Yolé erano rimasti solo in due, c’era bisogno, dunque sono andato. Sono stato ordinato Diacono in Africa, a 24 anni, e lì ho passato trent’anni della mia vita.
Trent’anni sono tanti: il Centrafrica, nel frattempo, è cambiato?
Forse sono cambiato io (dice ridendo, ndr). La cultura e il modo di pensare sono diversi rispetto all’Europa. La fede è semplice e genuina ma mancano le istituzioni. Le Missioni hanno portato le scuole ma lo Stato arranca: d’altronde almeno dal 1997 in poi si conta una guerra dopo l’altra e questo clima favorisce la paura ma non la crescita. E dire che il Paese è fertile ma gli abitanti fanno la fame, ci sono troppi interessi internazionali e diverse potenze che sfruttano il territorio. Aggiungiamo che il Centrafrica non ha uno sbocco sul mare dunque tutti i prodotti di importazione devono passare attraverso diversi Stati e costano di più. Poi le strade sono inesistenti, il territorio è grande il doppio dell’Italia ma la popolazione è di appena cinque milioni di abitanti. È un quadro molto complesso ma cerchiamo di darci da fare: ai centrafricani per lo sviluppo servono scuola, sanità, formazione, aiuto per l’agricoltura e per l’allevamento.
E proprio su agricoltura e allevamento lei si è impegnato molto, giusto?
Sì, ho sempre nutrito un grande amore per la natura: da piccolo portavo in casa gatti, cocorite, criceti, anatroccoli. I miei genitori non erano molto contenti ma io mi divertivo. Poi in Seminario P. Anastasio mi ha scelto come giardiniere, ho imparato da lui e da altri frati esperti di botanica e mi sono appassionato anche alle piante.
In Centrafrica di cosa si sta occupando?
In Centrafrica mi sto occupando della Scuola Agricola a Bangui: credo che questo tipo di formazione sia indispensabile per dare ai centrafricani uno stimolo imprenditoriale che possa risollevare l’economia del Paese. Quando sono arrivato alla Scuola Agricola mi sono reso conto che la formazione era molto teorica e poco pratica: dunque ho voluto ampliare l’orto e creare un frutteto formando ex studenti e facendoli diventare collaboratori a tutti gli effetti. Abbiamo potenziato l’allevamento passando da sessanta a centotrenta mucche selezionando la razza migliore per il latte e da pochi mesi abbiamo iniziato la produzione di formaggio e yogurt. In più mi sto informando sulla permacoltura e l’agricoltura biologica: è nostra intenzione creare pascoli dove ora c’è un’area di vecchie palme e anche migliorare la selezione della razza delle mucche. Sono obiettivi ambiziosi ma possibili se si creano sinergie: a Bangui ad esempio c’è un birrificio e il residuo della produzione, con i cereali, non viene più buttato via: va alle nostre mucche.
Insomma, il cambiamento in Centrafrica è possibile?
Ho fiducia nel futuro e la scuola agricola che stiamo sviluppando sarà un esempio per il Paese, ma c’è ancora molto lavoro da fare. La fede tuttavia porta i suoi frutti e vediamo quotidianamente che le persone si emancipano, iniziano a guardare al futuro con speranza, non sono più schiave della superstizione e della paura. Io ho 61 anni, sto lavorando per trasmettere le competenze che ho acquisito e per passare il testimone: è questo il mio modo di evangelizzare.
Valentina Bocchino