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Sorride tanto, sorride sempre padre Maurice, quando racconta della sua vita che si intreccia fin dall’inizio con le missioni carmelitane in Centrafrica. La sua voce è calma e trasmette serenità anche mentre parla degli episodi più difficili, ma gli occhi gli brillano di entusiasmo soprattutto se gli si chiede di uno degli argomenti che gli stanno più a cuore: l’istruzione dei ragazzi che la missione sta portando avanti in una terra tormentata da violenza e povertà.
Padre Maurice Maïkane è un simbolo sia nelle missioni sia in Italia: è il primo carmelitano centrafricano. Nato 51 anni fa a Bozoum, ha visto nascere la prima missione dei carmelitani che si stabilirono in questa città nel 1971, quando lui aveva appena un anno. Si può dire dunque che la sua intera esistenza sia stata segnata dalla presenza dei missionari che, iniziando con poco o niente, hanno portato in Centrafrica fede, lavoro e istruzione.
Proprio alla cultura e ai giovani padre Maurice ha dedicato la sua vita: per anni è stato formatore nel Seminario minore di Yolé-Bouar, che lui stesso ha inaugurato nel 1986. Poi ha studiato Teologia pastorale a Roma per due anni, nel 2015 è tornato in Centrafrica ed è stato destinato alla parrocchia di Baoro dove si è dedicato all’evangelizzazione dei villaggi e alle scuole aperte per l’alfabetizzazione dei bambini. Sempre a Baoro, è stato anche direttore della scuola di meccanica e ultimamente è stato nominato priore del Convento del Carmel di Bangui.
Padre Maurice, si può dire che tu sia nato e cresciuto con la missione: quali sono i tuoi primi ricordi?
Ricordo prima di tutto l’incontro con alcuni dei padri fondatori. Rimasi molto colpito dalla loro forza d’animo, dalla fede incrollabile e dalle loro parole di speranza durante la messa: così, man mano che crescevo, si faceva strada in me la consapevolezza di voler diventare come loro da grande. Volli così iniziare facendo il chierichetto che per me era un bellissimo modo per entrare a far parte della missione più attivamente e mettermi al servizio.
I missionari erano arrivati a Bozoum da poco, la tua famiglia accettò subito la tua volontà?
All’inizio, quando chiesi a mia madre di poter fare il chierichetto, lei si mostrò titubante perché mi riteneva troppo pigro, ma io ero convinto, dunque mi ha sostenuto. Devo moltissimo a mia mamma. Prima del noviziato, quando molti cercavano di persuadermi a intraprendere un’altra strada, lei mi disse: «Non posso darti io le risposte che cerchi, ma sappi che sei libero di scegliere. Vedo che questa è la strada che hai preso fin da bambino, dunque vai, spiega le tue ali, io ti capirò e ti sosterrò». Le sue parole mi diedero la forza di andare avanti e seguire la strada della fede, quella che avevo scelto, e non le dimenticherò mai.
Quando hai capito di voler proseguire il percorso nella Chiesa?
Dopo un anno che facevo il chierichetto il parroco mi convocò in ufficio. All’inizio ero timoroso, avevo paura che volesse darmi qualche brutta notizia, ma lui mi chiese se me la sentissi di entrare a far parte definitivamente di questa grande famiglia. Per me è stato come un segno del Signore, la chiamata definitiva. Quando sono uscito dall’ufficio esultavo di gioia. Nel mio percorso poi ho conosciuto i primi missionari, ho stretto amicizia con molti di loro, tra cui Aurelio Gazzera che era ancora uno studente. La nostra vocazione è nata e cresciuta con le missioni in Centrafrica.
Sei stato il primo p. carmelitano centrafricano: racconta le tue emozioni al momento di prendere i voti.
Ricorderò sempre la paura dell’inizio. Ero tra i primi centrafricani decisi a voler prendere i voti. Eravamo in tre. Gli altri, però, con il tempo andarono via e intrapresero altre strade. Rimasi così l’unico centrafricano, il primo. Sulle mie spalle sentivo una grande responsabilità. Pensavo: «Avrò il coraggio di andare fino alla fine, di essere un esempio per gli altri?». Poi mi sono detto che se è il Signore che mi ha chiamato, mi darà anche la forza necessaria. E, affidandomi a Lui, così è stato. Tra l’altro, nel 2002, per una felice coincidenza, sono stato ordinato sacerdote da colui che mi aveva battezzato quando ero piccolo, monsignor Armando Gianni: era proprio il mio destino. Quanto al senso di responsabilità, quello non passa mai, ma non è una cosa negativa, perché so che stiamo facendo molte cose importanti per il popolo centrafricano: mi dà forza vedere la vita fraterna, serena e amichevole che conduco con i miei confratelli. Compiamo questo cammino insieme.
Di cosa ha bisogno il Centrafrica?
Non ho dubbi: dell’istruzione. Solo con quella ci sarà spazio per un futuro di pace e di progresso. La missione sta facendo da anni un lavoro enorme attraverso il Seminario ma non solo, anche con tutte le scuole che ha aperto, dalla meccanica all’agricoltura: è diventata negli anni un vero punto di riferimento per l’educazione in Centrafrica. I bambini e i ragazzi hanno bisogno di avere esempi, testimoni che facciano capire loro che il futuro può essere migliore. La scuola fa nascere nei giovani centrafricani il desiderio di prendere la loro vita in mano, di non vivere solo più alla giornata. Ma se il primo step è costruire un sistema educativo, il secondo è altrettanto importante: bisogna mantenerlo e non è facile, perché bisogna guardare al lungo periodo in un Paese in cui c’è molta povertà, dunque la gente non ha tempo per pensare al domani perché deve sopravvivere all’oggi. È un processo lungo: ci vogliono tempo e coraggio; la sfida è coinvolgere e formare la popolazione.
I ragazzi che non vanno a scuola cosa fanno?
Molti diventano contadini, ma la filosofia in una terra difficile è vivere alla giornata e senza piani per il futuro né prospettive di miglioramento ricadono nella povertà. Poi ci sono coloro che subiscono il richiamo della vita violenta, il rischio che i ragazzini vengano reclutati è forte: i cosiddetti ribelli sono persone senza un’educazione, pensano che uccidere sia la via più semplice e immediata per costruirsi un futuro e ottenere quello che si vuole. Noi dobbiamo far capire che non è così, servono molta attenzione e delicatezza, ma di una cosa sono certo: grazie all’istruzione c’è un futuro per il Centrafrica.
Valentina Bocchino