Se si guarda indietro, P. Francesco Palmieri, nonostante i suoi appena 30 anni di età, ha tante cose da raccontare: le difficoltà che ha dovuto affrontare, la vocazione, l’incontro con un frate che gli ha cambiato la vita e poi il convento, il Centrafrica e l’ordinazione recentissima, risalente al 20 luglio. Eppure è ben consapevole che questo momento in realtà non costituisca un punto di arrivo bensì una partenza: “Come mi ha detto P. Aurelio Gazzera, prima è stato un cammino, adesso inizia tutto. È l’ora di cominciare il mio vero viaggio”. E prima di questo inizio? C’era Francesco, un ragazzo con un “fuoco dentro”: una fiamma che però non sapeva come interpretare, finché non ci ha pensato
la fede.
P. Francesco, ci racconti la tua storia?
Fin da piccolo ero affascinato dal mondo della Chiesa e in particolare dalle missioni. Ricordo che a sei anni andai in chiesa con la mia famiglia e incontrai un vescovo missionario. Chiesi a mia mamma cosa volesse dire, e lei mi rispose: “È una persona che lascia tutto per dare Gesù agli altri”. Dopo la Messa, sgattaiolai di nascosto dal vescovo per dirgli che volevo diventare come lui.
E poi?
Poi ho sempre sentito ardere questo fuoco dentro, ma la vita mi ha portato a intraprendere altri percorsi. Finché per puro caso, alla fine delle scuole superiori, incontrai di nuovo il vescovo missionario. Mi sembrò un segno e si riaccese il mio desiderio di conoscere meglio la vita della Chiesa. Entrai in contatto con un convento di Frati Carmelitani Scalzi: non avevo mai pensato a questo tipo di vita, temevo di non essere pronto. Poi un frate mi convinse a passare qualche giorno nella struttura: appena poco tempo, poi avrei avuto modo di riflettere con calma sull’esperienza. Ebbene, qui conobbi uno stile di vita che non avevo mai provato, fatto di preghiera, riflessione e tranquillità. Provai una sensazione di pace nuova e sentii di aver finalmente trovato il mio posto nel mondo. Così decisi di entrare in convento, avevo 19 anni. Da qui è iniziato il mio percorso: un anno in prova a Brescia e il noviziato a Trento, la prima professione a Verona, tre anni di studio di teologia e infine nel 2019 la Liguria. Nel 2023 l’ordinazione a diacono e infine la partenza per il Centrafrica.
Com’è andata questa prima esperienza nelle missioni?
Il primo impatto è stato forte: sicuramente ho trovato tanta povertà ma anche molta gioia nelle piccole cose, quelle che noi europei abbiamo un po’ perso di vista. Quando sono tornato in Italia i primi giorni sono stati difficili, tutti mi sembravano tristi eppure avevano molto di più. Forse è questo il “mal d’Africa”: farsi contagiare da quell’entusiasmo che in certi contesti abbiamo perduto.
Dove sei stato?
Ho prestato servizio al seminario di Yolé dove c’erano 84 ragazzi, una bella sfida! Ma soprattutto è stato uno scambio costante: ho insegnato a loro, e loro a me. Adesso posso dire che il mio cuore è diviso a metà: una parte in Italia dove ci sono le mie origini e la mia famiglia, l’altra in Centrafrica dove ho imparato a donarmi agli altri. Dopo questa bellissima esperienza sono tornato in Italia per completare il mio percorso e infine sono stato confermato in Centrafrica: dunque tornerò questa volta come sacerdote, con una consapevolezza e una ricchezza interiore maggiori. Sono molto contento e non nascondo che mi piacerebbe portare periodicamente nelle missioni i genitori dei seminaristi italiani: avrebbero l’opportunità di conoscere questa realtà più da vicino.
Sei molto giovane e la tua storia insegna che c’è posto per i ragazzi nella Chiesa. Ma qual è la chiave per avvicinarli?
È la storia della mia famiglia che lo insegna: anche mio fratello di 24 anni sta completando gli studi in teologia a Brescia, mentre mia sorella di 29 anni è monaca di clausura. Ognuno di noi ha compiuto il suo percorso personale, ma siamo sempre stati accomunati dal senso di gratitudine verso Gesù e Maria che ci hanno aiutati in tanti momenti difficili. Per quanto riguarda il tema dei giovani, Don Bosco diceva che “su dieci ragazzi, otto hanno la vocazione”. Credo che sia vero: ma non sempre si è consapevoli di questa fiammella che arde dentro. Molti giovani sentono il richiamo della fede, ma se questo fuoco non viene alimentato rischia di spegnersi. Penso che ci sia una grande responsabilità da parte di chi forma i giovani e che deve andare a cercarli, seminare, non arrendersi.
È quello che è successo a te?
Sì. Quando sono stato ordinato, P. Aurelio Gazzera nella sua omelia ha detto che non sono io ad aver fatto tutto da solo ma è la Chiesa che mi ha chiamato: ha ragione, da solo probabilmente non ci avrei mai pensato. È stato merito del frate che ho incontrato, che ha visto in me del potenziale. Il rischio è sempre quello di un rifiuto, ma almeno si è provato a seminare.
Se incontrassi un giovane con questo “fuoco dentro”, come cercheresti di avvicinarlo alla Chiesa?
Non dev’essere un’operazione di convincimento ma una riflessione che nasce da dentro. Mosso da questa convinzione gli porrei alcune domande: sei davvero felice? Non ti manca nulla nella tua vita? Quali sono i tuoi punti di riferimento adesso?
Prima hai menzionato P. Aurelio: ha celebrato la Messa della tua ordinazione poco dopo essere diventato vescovo coadiutore della diocesi di Bangassou. È stato emozionante?
Molto, ho conosciuto P. Aurelio quando ero in Africa e conservo un ricordo molto bello. Era capace a guidare per nove ore di fila per andare a controllare il cantiere del convento a Bangui e poi allungare ulteriormente la strada pur di venire a salutarci. Un affetto e una cura che mi hanno fatto sentire a casa. E noi come vedevamo il suo pick-up avvicinarsi correvamo a mettere il caffè sul fuoco! Insomma, è davvero una bella comunità e adesso sono pronto per tornare e iniziare il mio viaggio.
Valentina Bocchino, giornalista