Intervistiamo p. Marcello, tornato alla missione di Bouar, nel chiostro del convento di S. Elia, dopo un anno trascorso in Italia per curare un problema di salute. Missionario per quarant’anni, il Centrafrica è la sua casa dal 1982 e qui i novizi l’hanno accolto con gioia.

P. Marcello, contento di essere tornato a casa?

Certamente sì, sentivo molto la mancanza della vita qui, in Centrafrica, nel nostro convento di S. Elia. Il viaggio è stato lungo e faticoso, ma ne è valsa la pena. Sono finalmente tornato nella mia casa!

Da quarant’anni fa a oggi quali cambiamenti nota in Repubblica Centrafricana?

C’è stato un discreto sviluppo. Ho visto progredire anche lo scambio con altri paesi. Le strade restano molto disastrate, ma la tecnologia è arrivata anche qui. Chi può permetterselo acquista un telefonino. Si può trovare a basso costo. La gente locale ama molto comunicare. A questo sviluppo però non corrisponde un vero miglioramento delle condizioni di vita.

Ci sono i telefonini, ma manca ancora l’acqua potabile.

In Repubblica Centrafricana mancano ancora tante cose di prima necessità. Lo Stato non fa molto con i propri mezzi, ma ci sono tante organizzazioni, cominciando dalle chiese, prima tra queste la chiesa cattolica e poi gli organismi non governativi che si prendono a carico tanti bisogni. Una necessità primaria è quella dell’acqua. Se si cammina nei villaggi ora si trovano quasi dappertutto le pompe a mano o a pedale, altrimenti si ricorre ai pozzi tradizionali. Ci sono anche piccoli torrenti che s’ingrossano quando arriva la stagione delle piogge. Nella stagione secca invece non è facile trovare l’acqua. Spesso si vedono lunghe file di persone vicino ai pozzi.

Anche la corrente elettrica è un problema, la luce manca praticamente ovunque.

La mancanza di energia elettrica è una difficoltà. È evidente guardando le immagini satellitari. Infatti, in corrispondenza della Repubblica Centrafricana si vede nero ovunque. Se ci si concentra si riescono a notare alcune deboli lucine nella capitale, Bangui, o in qualche altra cittadina importante, come Bouar o Boali. La popolazione cerca di arrangiarsi come può, anche con i pannelli solari che forniscono un po’ di elettricità, sufficiente per la sera, quando si possono accendere piccoli apparecchi come i telefonini o la radio. La musica è un’altra delle cose a cui la gente locale tiene molto. Lungo la strada poi, ogni tanto si vede qualche lampione acceso grazie a pannelli solari. È l’iniziativa di qualche persona importante, impegnata politicamente, che regala un po’ di luce per avere consenso.

Oltre ad acqua e luce poi, non ci sono neppure le strade. Difficile raggiungere le città e i villaggi più distanti.

Quella delle vie di comunicazione è una situazione disastrosa che non migliora da decenni! Sono infrastrutture che mancano o che hanno bisogno di manutenzione. C’è una minima rete di strade asfaltate, una di queste in particolare collega il Centrafrica al Camerun. Il resto sono tutte piste sterrate, polverose, piene di buche. Così è davvero difficile spostarsi da una città all’altra.

Non ultima, l’insicurezza. La guerra qui è una minaccia continua. Avete paura?

No, paura no. Noi andiamo avanti confidando nell’aiuto del Signore. Ma è vero, il problema più grande resta sempre quello della sicurezza, soprattutto in questi ultimi otto anni. Il paese è stato destabilizzato ed è ancora in una situazione molto precaria rispetto ai tempi precedenti. In passato c’erano stati diversi colpi di stato e ammutinamenti, ma non una vera e propria destabilizzazione. Ancora oggi conviviamo con la presenza di gruppi armati che occupano diverse zone del Paese, sfruttando le risorse minerarie del sottosuolo.

In tutto questo però siete riusciti a portare il Vangelo alla popolazione.

Sì, in cinquant’anni abbiamo percorso un bel cammino di fede ed evangelizzazione. La permanenza dei missionari in tutto questo periodo, anche nei momenti più difficili durante le guerre e le sommosse, è stata un segno forte per la gente del posto. È un fattore che dà stabilità, aiuta e dà coraggio. È stato anche necessario rimanere per mantenere attive le tante strutture che sono state create e costruite nel tempo da tutti i padri missionari, come le scuole, le chiese e i dispensari. L’unica missione che è stata devastata, quando nel 2003 ha preso il potere il presidente Bozizé, è stata quella di Bozoum. I padri che vivevano lì hanno dovuto temporaneamente abbandonare la missione. Ma è stato l’unico caso.

In base all’esperienza del passato, cosa vede per il futuro di questo paese?

Occorre continuare a lavorare perché le persone abbandonino paure e credenze che sfiorano la superstizione. Ad esempio, per quanto riguarda il matrimonio cristiano, l’impegno è tanto e se ne parla molto, ma ci sono difficoltà a causa di condizionamenti esterni al Sacramento, come ad esempio il pagamento della dote da parte dell’uomo, con cifre elevate che scoraggiano le coppie a sposarsi. Nei giovani poi è carente l’educazione alla sessualità, alla fedeltà e il rispetto della donna. Senza parlare poi della vera educazione dei figli. Tanti desiderano avere una famiglia numerosa, ma spesso manca la possibilità di dare una vera istruzione ai figli. C’è ancora davvero molto da fare anche per quanto riguarda la scuola.  È un lavoro lungo, perché lo Stato, ripeto, non arriva a fare tutto in un paese grande due volte l’Italia, anche se gli abitanti sono solo cinque milioni.

P. Marcello, qui a S. Elia c’è la formazione dei novizi, il futuro della chiesa centrafricana. Qual è il vostro contributo?

Certamente la formazione dei novizi è un lato positivo che dà un po’ di speranza. Il lavoro vocazionale sta dando buoni frutti. Oggi noi frati carmelitani abbiamo dodici sacerdoti centrafricani, altri istituti ne contano diversi, anche religiose e preti diocesani. È una chiesa che sta crescendo, anche se la popolazione in generale non ha ancora una vera spiritualità cristiana. Nutriamo la speranza concreta, sempre con l’aiuto del Signore, di vedere i frutti di tanta dedizione negli anni che verranno.

Cristina Carbotti, giornalista RAI