È una vita al servizio della formazione quella di padre Domenico Rossi, per due volte rettore del seminario di Arenzano e fondatore del seminario di Gesù Bambino in Centrafrica, prima di partire per il Camerun.
Una vita molto diversa da quella che conduceva da bambino, nel piccolo comune di Badalucco in provincia di Imperia: «E dire che, quand’ero bambino, non pensavo che mi sarei mai trasferito. Invece di chilometri ne ho percorso parecchi» racconta lui.
Padre Domenico, qual è la sua storia?
«Sono entrato in seminario quando avevo dieci anni e mezzo. All’inizio la mia famiglia, soprattutto mia sorella, non era favorevole. Ma io ero testardo, dunque andai. Ricordo di aver sentito la chiamata in maniera molto nitida qualche tempo dopo, al seminario di Arenzano. Ero indisciplinato, una mattina il rettore mi rimproverò, e decisi che così non andava più bene: dovevo cambiare, altrimenti me ne sarei andato. Ma faceva per me questa vita? Ci pensai su poi, poco dopo, durante la Comunione, ho sentito chiaramente che volevo restare, diventare un carmelitano e un buon missionario. In quel momento ho chiaramente sentito la fede aprirsi nel mio cuore».
Ad Arenzano ebbe inizio la storia della sua vocazione: sente un legame profondo con la cittadina ligure?
«Sì, qui ho completato i miei studi e sono stato anche rettore per due volte, dal ‘70 all’‘82 e poi dal 2000 al 2005. Nel 1982 diedi le dimissioni da rettore qui per andare in Centrafrica, dove ero stato chiamato, e laggiù fondai il seminario di Gesù Bambino».
Cosa ricorda del suo primo viaggio in Centrafrica?
«La prima cosa che ho avvertito quando sono sceso dall’aereo era un senso di sofferenza, di miseria, di ingiustizia. Vedevo quei bambini poverissimi, nudi, con la pancia gonfia, e mi chiedevo se sarei stato in grado di fare qualcosa per aiutarli. Ricordo che avevo iniziato da poco con la missione e a un certo punto arrivò il vescovo di Bouar che mi convinse a dedicarmi alla formazione anche in Centrafrica: all’inizio non ero convinto, poi dopo un anno di attività pastorale nella brousse mi sono messo a disposizione ma mi sembrava di aver ancora troppa poca esperienza».
Eppure era già stato rettore in Italia.
«Sì, ma era un’altra cosa. In Centrafrica ho dovuto affrontare alcune grandi sfide: innanzitutto imparare il sango, e poi la mentalità del posto. Quando abbiamo pensato all’apertura di un seminario ci siamo domandati come fare con ragazzi e famiglie dalla cultura così diversa dalla nostra. Siamo dovuti partire dalle più piccole cose, era un mondo diverso in tutto».
Dunque com’è andata?
«Bene, nonostante le difficoltà iniziali: nell’agosto 1983 aprii la Casa di Gesù Bambino dei Ragazzi, un pre-seminario. Avevamo iniziato con sette giovani, presto ne aggiungemmo altri cinque, un numero che ci permetteva anche di giocare a calcio per poter coltivare un hobby. In generale le famiglie erano entusiaste e molte vollero mandare i loro figli da noi».
E poi?
«Poi a un certo punto sono andato a Bouar a salutare il nuovo superiore dei cappuccini, padre Valentino, che mi dice di aver saputo che avevo aperto la Casa dei Ragazzi e che la trovava una buona idea. Ci voleva a questo punto un seminario: siamo andati dal vescovo che decise di appoggiarci, furono convocati consigli presbiteriali, dei carmelitani, dei cappuccini, tutto venne organizzato e si partì con il seminario della Yolé. I padri della missione, il vescovo, erano tutti d’accordo, io rimasi a bocca aperta: pensai che fosse davvero un segno della volontà del Signore. Dopo venne anche la Casa del Noviziato, aperta nel 1994 a Sant’Elia: le difficoltà non sono certo mancate, io mi sono semplicemente messo a disposizione con gli altri frati, il Signore ha creato le condizioni».
Nel 1996 la nuova ripartenza per l’Italia e poi via per un’altra avventura, questa volta in Camerun. Come sono andate le cose?
«Nel 1996 sono ripartito per l’Italia e sono rimasto qui fino al 2013, nel frattempo ho guidato il seminario di Arenzano per la seconda volta. Ero contento, poi mi è stato chiesto di andare in Camerun, perché c’erano parecchie difficoltà laggiù e la missione rischiava di chiudere. Senza sapere null’altro, nel giro di un minuto avevo già deciso: sì, sarei andato in Camerun».
Quali erano i problemi in Camerun?
«La missione era nella sua ‘fase di adolescenza’ e stava attraversando una crisi forte, era tutta da riorganizzare. Quando sono arrivato io se ne sono andati in cinque, dunque c’erano anche poche persone. Non è stato facile ma ce l’abbiamo fatta, anzi, il Signore ce l’ha fatta».
Quali sono le differenze tra Centrafrica e Camerun?
«Se ripenso alla prima impressione che ho avuto una volta arrivato in Centrafrica, il Camerun è molto diverso. La capitale, Yaoundé, sembra una città occidentale con luci, luminarie, auto moderne, la prima impressione è di non essere nemmeno in Africa. Ci sono anche problemi diversi: in Camerun si sente forte la discrepanza tra poveri e ricchi, in Centrafrica questi ultimi mancano quasi totalmente. In Camerun ci sono strutture più moderne come ospedali e scuole e soprattutto tutti vogliono far studiare i figli. La popolazione è disposta anche a grandi sacrifici pur di mandare i giovani a scuola, in Centrafrica non era così scontato. C’è anche un grande senso della sacralità della fede. Ma quella del Camerun è una società che ha anche pesanti ombre».
Cioè?
«C’è una lotta per il potere più spietata, c’è ancora molta superstizione e a volte per screditare l’avversario lo si accusa addirittura di stregoneria. C’è però tanta gente che lavora e che vuole studiare per cambiare le cose. Insomma c’è speranza per il Camerun che secondo me è uno dei giovani Paesi emergenti».
Esiste un modo per migliorare, sia in Centrafrica sia in Camerun?
«Certo, c’è una regola che vale ovunque: tutto il mondo ha bisogno di Gesù e il nostro compito è portarlo. Sono contento di essere un carmelitano perché ho il dono di dover portare agli altri il nome di Gesù. Nel corso della mia esperienza ho visto che la gente del Camerun e del Centrafrica ha una grande sete di questo dialogo d’amore, penso sia questa la ricetta giusta da cui partire».
Valentina Bocchino