Come architetto, collaboro da più di trent’anni con i Padri Carmelitani Scalzi, avendo seguito diversi progetti e lavori di restauro. Già nel 1994 avevo conosciuto la missione, essendo stato invitato dai frati in terra centrafricana. Come molti, ho subito sentito il fascino di questo continente un po’ selvaggio, ma di una bellezza che toglie il fiato. La vita non è facile e certamente non esistono le comodità alle quali siamo abituati, ma la gente è spontanea, sorridente e sempre pronta a ballare e cantare. Le Messe sono vere feste alle quali si partecipa con entusiasmo e il tempo trascorre quasi senza accorgersene.

Quando, alcuni anni fa p. Giustino, allora Superiore Provinciale, mi aveva invitato a partecipare a un piccolo concorso di idee per un nuovo Convento e Casa di Spiritualità a Bangui non avrei mai pensato di vivere una vera avventura. Insieme al mio collega Nicola Buogo e alcuni collaboratori, nel 2016, abbiamo presentato una proposta che è piaciuta. Dopo alcuni ripensamenti sulla posizione e sulla dimensione del complesso, finalmente lo scorso anno è stato dato il via ai lavori e sono partito per Bangui, dove mi aspettavano i padri missionari. Avrebbe dovuto essere una visita di dieci giorni, sufficienti per gli ultimi chiarimenti e per la firma del contratto con l’impresa esecutrice. Non avevo però fatto i conti con quello che stava accadendo nel mondo a causa del Covid-19. Così, proprio quando ero pronto a tornare in Italia, p. Federico m’informava che io e p. Davide eravamo risultati positivi al tampone. Non vi nego che in quel momento sembrava mi stesse crollando addosso il mondo. Temevo la malattia ed ero preoccupato per gli impegni di famiglia e di lavoro che mi attendevano in Italia. Che cosa sarebbe successo? Avrei avuto problemi come le tante persone che in quel periodo affollavano i reparti di rianimazione negli ospedali del mondo?

P. Federico ci rassicurò che fra Aristide, giovane frate del convento e infermiere, si sarebbe preso cura di noi. La prima notte è trascorsa insonne e affollata da brutti pensieri, fino a quando è suonata la campana che chiama i frati alla preghiera mattutina. Alle prime luci dell’alba, sentendo i frati cantare in coro, ho pensato dentro di me: “Ma perché mi preoccupo tanto, quello che succede non è nelle mie mani”. E finalmente sono riuscito a riposare.

Le “cure africane” hanno fatto egregiamente il loro lavoro, le prime due settimane sono passate rapidamente, anche se ero confinato “in isolamento” insieme a p. Davide, nel chiostro degli ospiti. Qui, come in “Azzurro”, la famosa canzone di Paolo Conte cantata da Adriano Celentano, cercavo “un po’ di Africa in giardino”, dove lavoravamo come se fossimo in ufficio.

Ogni settimana ripetevamo il “rito” del tampone a cui, ahimè, risultavo positivo, mentre p. Davide, ben più giovane, era già negativo ed era potuto rientrare in Italia. Rimasto solo, considerando che la carica virale era ormai bassa, la fraternità religiosa mi ha accolto invitandomi a partecipare alla vita della comunità. Questa è stata la più bella esperienza e il più grande dono che io abbia ricevuto da questa “avventura” perché per la prima volta ho potuto vivere per un periodo all’interno della comunità, condividendone i diversi momenti della giornata, dalla preghiera al lavoro, dai pasti alla vita fraterna. È stata un’esperienza che mi ha aiutato molto, sia a livello umano, sia per il mio lavoro, potendo per la prima volta comprendere meglio il significato degli spazi della vita conventuale.

Ho imparato a riconosce i volti e i nomi di tutti i frati e i pre-novizi, stabilendo un rapporto personale che le brevi visite fatte in precedenza non mi avevano mai permesso di sperimentare. Ho apprezzato la loro spontaneità, il loro affetto e la gioia che contraddistingue la vita di questi giovani nella comunità, i canti durante le liturgie e gli scherzi dopo i pasti.

Il fatto che i miei programmi fossero saltati mi era parso un problema, in realtà mi sono state concesse delle opportunità che l’organizzazione spasmodica della mia vita piena d’impegni, finora considerati come improrogabili, non mi aveva mai donato.

Dopo quattro settimane, sono potuto rientrare in famiglia, dove mi aspettavano con non poca preoccupazione.

Sono già tornato altre due volte a Bangui per seguire i lavori che proseguono senza sosta, il nuovo convento sta prendendo rapidamente forma e oggi siamo alla preparazione per il getto del primo solaio. I sopralluoghi sono importanti per controllare la qualità dei lavori, per discutere insieme a p. Aurelio le complicazioni sorte nel cantiere, per affinare le scelte e fare i necessari “aggiustamenti”, ma il viaggio più bello in questa terra che mi ha toccato il cuore è sempre quello umano, nella comunità del Carmel che sento un po’ parte della mia famiglia e dove mi ritrovo, in un certo senso, “a casa”.

Arch. Giovanni Grossi-Bianchi