I racconti tratti dal diario di padre Nicolò Ellena ci portano in Centrafrica. Ecco come un ragazzo di nome Albert va a scuola e a catechismo.

Albert riprende la scuola, che dovrebbe frequentare, obbligatoriamente, tutti i giorni. Ma anche qui, come in molte altre faccende, nella vita di brousse le cose sono molto relative. La scuola, il più delle volte una semplice capanna o tettoia in paglia, può essere lontana 7-8 e più chilometri. Bisogna quindi partire almeno due ore prima per giungere alle 7.30 e rispettare il sacrosanto “orario”. Gli scuolabus non entrano neppure nella fantasia; calzature, quando pure ve ne siano (caso rarissimo), sono riservate a ben altre occasioni; e così, a piedi nudi ci s’incammina, in spensierata e lieta brigata, con la fionda al collo. Cartelle? Per farne che cosa? Libri, quaderni, ecc. non ce ne sono e costano cari e se qualcosa c’è, lo si piazza in bilico sulla testa, portabagagli tradizionale e gratuito per un africano. Colazione? Qualcosa lungo la strada si troverà e, se non si trova, si attenderà il ritorno a casa per l’insostituibile polenta di manioca, condita di un formidabile appetito, il solo condimento che non manca mai. Alla scuola si arriverà smaltiti i chilometri necessari. Le “ore 7.30” sono un modo di dire che non turba e non impegna eccessivamente, benché si sappia che il ritardo comporterà qualcosa di più e di peggio di una protesta o sfuriata solo verbale… Nel pomeriggio, allegramente, si rifà il percorso con qualche deviazione o sosta per soddisfare, fortuna permettendo, gli stimoli della fame. L’orario dei “pasti” (o del pasto) è fissato, più che dall’appetito o dall’orologio, dalla possibilità di trovare qualcosa da mettere sotto i denti. La regola è: si mangia quando e se c’è qualcosa da mangiare. Piove? Molte volte è inutile andare a scuola, perché essa diventa inagibile: sotto il tetto in paglia delle “aule” è quasi come stare sotto un albero durante un temporale. Brilla il sole? La scuola non ha certamente la precedenza sul resto: essa è ancora sopportata, non cercata. Quante volte s’incontrano sulle piste fangose o polverose, frotte di ragazzi, più intenti alla caccia ai topi, agli uccelli o alle termiti, che preoccupati di andare a scuola… D’altronde sarà loro molto più utile quanto apprendono dalla vita quotidiana di quanto possano trarre da una scuola fissa su programmi teorici e irreali. La miseria, la fame, il lavoro, la vita spicciola del villaggio, sono e saranno ancora per lungo tempo, i veri maestri, e ciò non per libera scelta ma per triste necessità. Nei centri, la situazione, pur non essendo rosea, permette di sperare in frutti più soddisfacenti. La missione non può andare più in là di un’azione indiretta e suppletiva, dove l’unica persona o una delle poche, che sa leggere e scrivere è il catechista. Le scuole di catechismo sono organizzate e frequentate con sufficiente impegno. Ogni giorno si suona il gong (un trespolo di forma e grandezza e tono che può variare da una vera campanella a un cerchione di bicicletta o di ruota d’auto). Cristiani e catecumeni depongono gli attrezzi da lavoro, si radunano davanti alla cappella o si accoccolano sui tronchi o su scranni di fortuna casalinga o per terra. S’inizia con canti in attesa degli immancabili ritardatari e poi si riprende la lezione del giorno precedente.

I catechisti più anziani leggono modulando con la cantilena, tipica di ogni tribù, la domanda e la risposta del catechismo e gli altri rispondono sullo stesso identico tono 3-4 volte di seguito, poi si passa alla domanda seguente. S’intercala il tutto con qualche spiegazione ed esempio tratto da usi e costumi locali; poi si conclude la lezione con un canto e le preghiere della sera, mentre la notte scende veloce e la vita del villaggio si concentra attorno ai fuocherelli davanti ad ogni capanna, dove la famiglia si prepara la cena.