Il diario di padre Nicolò Ellena (clicca qui per comprarlo e leggerlo tutto) contiene alcuni splendidi racconti che ben sintetizzano la concezione di vita in Centrafrica, e le differenze con il cosiddetto stile di vita occidentale. Questo parla di un tema molto particolare svolto da un bambino africano.
Nella scuola di un villaggio dell’Africa centrale, il maestro detta il tema: «Come vedi l’uomo bianco e l’uomo africano?». Dopo un po’ Albert porta l’elaborato all’insegnante che consiste in un disegno elementare.
Uomo bianco: gambe cortissime, ventre obeso e al posto della testa un grosso orologio con gli ingranaggi ben visibili. Didascalia: l’uomo schiavo del tempo.
L’africano? Gambe lunghissime e magre, corpo macilento, testa incastonata in una cassa d’orologio. Didascalia: il tempo schiavo dell’uomo.
Albert non ne aveva visti molti uomini bianchi nella sua regione: il missionario, qualche raro commerciante e nulla più, ma aveva avuto la buona o mala sorte di andare per alcune settimane nella capitale e là aveva aperto gli occhi. Paiono impazziti tutti… non ci si guarda neppure in faccia, non c’è tempo per un saluto, si corre, si corre, si cerca via libera, subito e ovunque. I bianchi sfrecciano più degli altri; nessuno di essi è a piedi. Sono seri, ben vestiti, non guardano che dritto davanti a sé, paiono statue su quattro ruote e infallibilmente portano tutti un luccicante orologio al polso. Albert riflette. Nel suo villaggio non accade nulla di simile: la gente è calma, non corre; tutto, uomini, animali e cose, è tranquillo. Gli dicono che nella città tutti vogliono “far presto”. Pare che nella vita tutto sia questione di tempo, tutto si riduca a “vivere”, a “far funzionare” il proprio tempo. Dicono ad Albert che tutto ciò è un regalo dei bianchi…
Sono loro che hanno destato il mondo nero come si sveglia un gigante addormentato da secoli; sono loro che hanno obbligato e obbligano ancora i neri a “far presto”, in tutto e sempre. Sono loro che hanno così distrutto la calma, la placida tranquillità millenaria dei neri. Trascorsa la breve parentesi in città, Albert deve ritornare nel suo vecchio, piccolo mondo. Il car stipato di uomini, di animali e di cose, ha “i minuti contati”, ha “un orario” e il povero ragazzo si accorge d’essere, anche lui, per forza di “civiltà”, schiavo di un orologio, che, gli dicono, detta legge e non perdona. Dopo pochi chilometri, i quasi palazzi della città scompaiono dalla vista, ricompaiono invece le capanne di fango e paglia, ritorna l’Africa vera, la brousse, un mondo familiare, incontaminato, dove uomini e cose hanno un altro significato, un altro ritmo, un’altra dimensione; dove l’Africa è rimasta africana. E anche l’orario ridiventa africano. Si può finalmente riacquistare la libertà. Si è partiti quando l’ha comandato l’orologio, ora si continuerà quando e come si potrà e vorrà. Ogni occasione è buona per una piacevole pausa. Ci sono gli amici, i parenti (pare che ce ne siano dappertutto) da salutare qua e là, c’è la carne affumicata e la manioca esposta ai bordi della strada da comprare.
Nella stagione delle piogge s’incontrano le frequenti “barriere” che obbligano a soste interminabili, con magri e forzati pic-nic nel fango. Nella stagione secca, invece, si va a briglia sciolta e lo stracarico manda a tradimento lo sconquassato car in qualche fosso: tappa quindi di ore se non di giorni. Nei paesi “civili” si mobiliterebbero subito le forze armate e non armate. Per l’Africa di cui vi parlo, la mobilitazione è limitata alle braccia dei passeggeri, alla perizia dell’autista nell’arrangiarsi, e, nei casi peggiori, all’attesa, più o meno rassegnata di mezzi di fortuna.
E la questione finisce lì.
Un giorno o l’altro si arriverà pure dove si vuole arrivare.
Una volta giunti a destinazione, poco importa quando riprende la vita del villaggio, che ha ben poco o nulla a che fare con quella della città.