Su un articolo comparso su Vatican News, a firma di Antonella Palermo, che riportiamo sotto, il padre carmelitano Aurelio Gazzera illustra l’impegno della Chiesa locale nella sensibilizzazione ai comportamenti anti contagio e commenta la dichiarazione congiunta dei vescovi europei e africani sul rafforzamento del partenariato tra i due continenti.
Non ha tregua la guerriglia nella Repubblica Centrafricana. La città di Bouar è stata teatro di un attacco da parte di un gruppo di ribelli che ha preso di mira alcune caserme. “La situazione adesso è molto tesa”, racconta padre Aurelio Gazzera, originario di Cuneo, da diversi anni in Centrafrica come religioso carmelitano. Spiega che si tratta di uno dei gruppi che aveva firmato gli accordi di Karthoum e che però si è staccato qualche giorno fa.
R. – Non sappiamo bene quali potranno essere gli sviluppi di questi disordini. Non possiamo contare molto né sui Caschi blu né sulle forze armate centrafricane, anche se stavolta qualcosa hanno fatto, per lo meno l’esercito centrafricano. Sono elementi numerosi che si muovono a piedi nella campagna, è difficile capire cosa succederà. La gente è stufa di queste guerriglie, non se ne può più. Il problema grosso è che sono gruppi ribelli con i quali la comunità internazionale e i governi continuano a dialogare ma senza nessun risultato.
Come vi state dando da fare per aiutare la popolazione a conoscere i rischi del contagio da coronavirus?
R. – E’ un grosso impegno che abbiamo già intrapreso alla fine di marzo quando i casi di contagio erano soltanto 8, ieri siamo invece arrivati a 1952 casi. C’è stato un aumento molto forte di contagi nelle ultime settimane. Il Paese è grande, anche se la popolazione è piccola, i mezzi sono pochi, soprattutto le strutture sanitarie sono molto più che disastrate. C’è qualcosa di pronto a Bangui, nella capitale, ma per il resto, nelle province, c’è poco. Noi abbiamo cominciato tra la fine di marzo e l’inizio di aprile a incontrare tutte le comunità parrocchiali. Le abbiamo aiutate a sensibilizzare sulla malattia, perché se ne parlasse nei quartieri e nei villaggi, nelle città. Abbiamo posizionato del materiale, maschere e guanti, e un po’ di cibo soprattutto per le persone più vulnerabili: anziani, handicappati… C’è stato un grande aiuto da parte della diocesi di Massa-Pontremoli, di una Ong di Praga che ci ha permesso di andare avanti con questo progetto. Ultimamente, con la Cei e Caritas italiana, stiamo facendo gli acquisti per alcuni ospedali qui nella diocesi: materiale di protezione e materiale per le prime cure, compatibilmente con la semplicità dei mezzi che ci sono qua. Comunque è già una grande cosa perché qui dallo Stato non arriva niente. Dalla settimana scorsa stiamo lavorando insieme alla Caritas degli Usa a un grosso progetto di animazione e di distribuzione di secchi e materiale per il lavaggio delle mani. Mettiamo a disposizione i mezzi minimi per proteggere almeno una parte della popolazione.
Come risponde la popolazione?
R. – A fronte di una grande sensibilizzazione, anche via radio, la gente non è che stia prendendo molto sul serio la situazione. Qui ci sono continuamente macchine che vanno e vengono dal Camerun, il Camerun è un Paese già molto toccato dall’epidemia ed è anche un po’ l’origine di gran parte delle infezioni in Centrafrica. Nonostante i divieti c’è un via vai molto intenso.
Ieri è stato diffuso un documento che contiene le raccomandazioni dei vescovi UE e Africani ai rappresentanti politici dei due continenti per la promozione di una partnership giusta, responsabile e incentrata sulla persona. Come guarda a questa dichiarazione congiunta?
R. – La cosa interessante da dire è che, da una parte, le conferenze episcopali dell’Africa sono molto sensibili e attente al vissuto di ogni Paese, spesso sono l’unica voce equilibrata e seria che si oppone alla corruzione e alle tragedie che sono in corso in vari paesi dell’Africa. Dall’altra parte, l’Europa porta con sé il bagaglio delle radici cristiane: è un continente con una presenza positiva che aiuta parecchio. Ora, l’incontro di queste due realtà può aiutare i Paesi africani ad evolvere e a cambiare la direzione verso cui molti di loro si sono incamminati. Si può dunque agire sulla lotta alla corruzione, la giustizia, l’opzione per i poveri, l’impegno per la responsabilità, la solidarietà, la tutela del creato che interpella tutti i Paesi, in particolare quelli africani, ricchissimi e poverissimi allo stesso tempo a causa delle risorse mal gestite…
Su questo fronte, lei si è battuto in prima persona contro lo sfruttamento illegale minerario. Come prosegue questo impegno?
R. – Le notizie sono parzialmente positive: alcune ditte che da un anno e mezzo hanno avuto una gestione problematica dell’attività a Bozoum, per la maggior parte, stanno andando via. Nei prossimi giorni vogliamo verificare bene, c’è stato un rapporto di Amnesty International in marzo che ha chiesto al governo che queste attività cessassero immediatamente. Noi pensiamo che se stanno lasciando è perché hanno preso già ciò a cui erano interessati, ma l’importante è che almeno risarciscano in parte i danni che hanno fatto.
Tornando alla dichiarazione dei vescovi, qui emerge il convincimento che “l’Africa e l’Europa possono diventare il motore di un rilancio di una cooperazione multilaterale”…
R. – Sono d’accordo, ma credo che sia anche ora di ripensare quella che è la cooperazione. Spesso qui vediamo una marea di Ong, con mezzi enormi e risultati molto discutibili, a volte scarsi, a volte buoni, a volte perfino negativi. Alcune fanno bene e vanno incoraggiate. Penso che la crisi economica che accompagnerà il Covid obbligherà un poco anche le Ong a rivedere alcune cose. Questa cooperazione è da ripensare promuovendo l’ascolto della gente, più che dei governi, una cooperazione che vada nel senso della continuità, di impegni più duraturi e non più affidati solo sull’onda delle urgenze.