Articolo di Leone Grotti pubblicato su “Tempi“.
Intervista a padre Federico Trinchero, priore del Carmel di Bangui, che ha ospitato fino a 10 mila profughi. «Non sono un eroe, la gente però ha apprezzato che non siamo scappati».
“Zo kwe zo”, ogni uomo è un uomo. È questo il motto in sango della Repubblica centrafricana. Il concetto è semplice, sembra quasi una tautologia, ma dal 2013 quasi tutti si sono scordati che cosa significa davvero. Durante oltre due anni di sanguinosa e feroce guerra civile, cominciata il 5 dicembre di quell’anno in seguito al colpo di Stato del 24 marzo, i centrafricani si sono divisi in ribelli islamisti Seleka e milizie anti-balaka, in musulmani e animisti e cristiani. Al Carmel però, convento carmelitano nella capitale Bangui, epicentro delle violenze, non si sono mai dimenticati che ogni uomo ha pari dignità e così 12 frati si sono presi cura di 10 mila profughi, scappati dagli scontri. Il priore del Carmel, padre Federico Trinchero, che oggi al Meeting di Rimini racconterà la sua incredibile esperienza, ha parlato a tempi.it della situazione odierna del paese e dei miracoli che ha visto accadere in questi anni.
Dopo la visita di papa Francesco a novembre dell’anno scorso, il Centrafrica è lentamente uscito dalle cronache. Le violenze sono finite?
Dopo la visita del Papa ci sono stati due grandi cambiamenti. Primo: ci si spara e ci si ammazza molto di meno, questo è un dato di fatto. Ci sono ancora scontri ma circoscritti, non degenerano in violenze più ampie come prima. Resta il fatto però che i ribelli Seleka controllano ancora il 60 per cento del paese, il nord-est, la parte più ricca di risorse naturali.
E il secondo cambiamento?
Prima della visita del Papa dicevamo: non ce la faremo mai, non ne usciremo più. Ora invece diciamo: ce la possiamo fare. Abbiamo eletto un nuovo presidente, Faustin-Archange Touadéra, che ha uno stilo molto sobrio, e questo è positivo per un africano, però ci aspettavamo di più. Ora deve anche fare qualcosa.
Di che cosa ha più bisogno oggi il paese?
La prima cosa è sempre la sicurezza. Il paese non ha un esercito, la polizia la stanno formando ora, l’amministrazione è quasi inesistente. Il Centrafrica ha questo grande problema: non è un paese da ricostruire ma da costruire. Lo Stato quasi non esiste. L’aspetto positivo di questa guerra è che abbiamo capito di avere un problema: non si può andare avanti così, senza Stato, senza paese.
E poi?
Il governo deve impegnarsi nella scuola e nell’educazione, cose di cui non si è mai interessato. Ci sono anche le infrastrutture: Bangui ha 800 mila abitanti e neanche un semaforo. Mancano le strade asfaltate e ospedali decenti. Ho portato una notte un profugo malato che non riusciva più a respirare nell’ospedale migliore del paese. Dire che nella sala di rianimazione le condizioni igieniche erano arcaiche è un eufemismo. Adesso c’è il rischio colera, perché non abbiamo fogne.
Quanti profughi ospitate ora nel Carmel?
Abbiamo trovato un modus vivendi. Ora sono a 30 metri da noi, mentre prima ce li avevamo in casa. Da 10 mila sono diminuiti a tremila. Gestiamo le urgenze, chi nasce e chi muore, i problemi o i litigi, e gli aiuti delle Ong quando arrivano. Poi facciamo il nostro lavoro: noi formiamo seminaristi.
La vostra missione è cambiata?
No, anche se questa cosa all’inizio ci ha scombussolato. Ma io sono sempre stato carmelitano, prima dopo e durante. Non ho sentito una frattura. Anzi. Non potevamo che fare così. La gente ha apprezzato perché ha visto che nonostante la guerra non siamo scappati, siamo rimasti con loro. Quando ci sono grossi combattimenti ti viene chiesto se vuoi andartene. Ma tutti noi italiani non ci abbiamo neanche pensato, e non perché siamo eroi. Ci è venuto naturale restare.
Non c’è il rischio di trasformarsi in una ong?
No. Prima non conoscevo il mondo delle ong, che è utile ma anche pieno di punti interrogativi. C’è una grande differenza tra noi e loro. Per loro è un lavoro, hanno uno stipendio, vanno in vacanza, alle 3 del pomeriggio finiscono di lavorare e si riposano. Noi invece siamo lì 24 ore su 24 e qualsiasi cosa succeda siamo presenti lì e facciamo quel che possiamo. La gente se ne accorge e si fida molto di noi.
In tutto il paese la Chiesa ha ospitato in parrocchie e conventi decine di migliaia di profughi, cristiani e musulmani: un’accoglienza incredibile.
A noi non è sembrato niente di eccezionale. Sono gli altri ad averci detto “bravi” oppure “realizzato il Vangelo”. Noi l’abbiamo fatto e basta, senza dover ragionare chissà quanto.
Il momento più difficile?
La distribuzione del cibo a 10 mila persone. È impressionante tanto è difficile. All’inizio ci siamo scoraggiati: arrivavano gli aiuti, tre camion di roba da mangiare, un’enormità. Le ong te li scaricano davanti alla porta e ti salutano. La prima volta ci abbiamo messo tre giorni a distribuirli, poi abbiamo affinato la tecnica.
Nel buio della guerra e della violenza avete visto delle luci?
Abbiamo visto tanti miracoli. I primi giorni eravamo in 50, con tanti bambini. Non potevamo uscire dal convento ma siamo riusciti a dare da mangiare a tutti per quasi due mesi. Nessuno è morto di fame, anche grazie a un amico musulmano che ci ha donato tremila uova. Il secondo miracolo è avvenuto a Natale 2015.
Cosa è successo?
Avevamo quasi duemila bambini e volevamo fare per loro un regalo. Ci pensavamo per la prima volta, perché nel Natale del 2014 si sparava troppo e si pensava ad altro. Non avevamo però soldi per comprare niente. Il 24 dicembre, senza preavviso, una ong locale sconosciuta è arrivata con dei macchinoni e ha scaricato cinque grandi scatoloni pieni di giocattoli. Poi sono spariti, non li ho mai più rivisti. Il terzo miracolo è semplice: nessuno è mai morto al Carmel per la guerra.
Com’è oggi il rapporto con i musulmani?
Timidamente si stanno riallacciando alcuni rapporti. C’è una zona di Bangui, un’enclave dove abitano solo i musulmani, vicina a un’altra che è terra di nessuno, che i cristiani attraversano. Ma i musulmani ancora hanno paura ad uscire, non se la sentono. Al massimo si recano in centro, dove ci sono più pattuglie dell’Onu.
Si temono ancora gli attacchi di anti-balaka e Seleka? Non erano stati sciolti?
In teoria sì, in pratica no. Stanno cercando di reintegrarli nell’esercito nazionale ma è difficile. La verità è che se ci fosse lavoro questa gente non farebbe la guerra. La povertà resta il problema maggiore del Centrafrica. Siamo troppo poveri e speriamo di riuscire questa volta a imboccare la strada dello sviluppo.
I soldati dell’Onu non aiutano a bloccare i gruppi armati?
L’Onu è qui ormai da due anni con 12 mila uomini. Non fanno tantissimo, ci aspettavamo di più anche se capisco che gestire il disarmo non è facile. Già è difficile morire per il proprio paese, figuriamoci per il paese di un altro. Se non ci fossero però la situazione sarebbe peggiore.
Il titolo del Meeting è “Tu sei un bene per me”. Questa frase ha senso in Centrafrica?
La gente deve smettere di odiarsi e capire che nessuno può vivere senza l’altro e che l’altro non è mai come vorrei che fosse. I centrafricani devono capire che non esiste un Centrafrica senza cristiani o senza musulmani. Questo titolo è simile al motto del nostro paese, Zo kwe zo, ogni uomo è un uomo. A prescindere dalla sua confessione religiosa e anche dal suo peccato.
Da dove può nascere la riconciliazione dopo anni di violenza e torti, compiuti e subiti?
Rispondo con le parole del vescovo di Bangui, monsignor Nzapalainga: la prima cosa da fare è il disarmo dei cuori e della testa. Bisogna convertirsi. Se durante la guerra la Chiesa ha fatto una gran bella figura, si è anche visto che il comandamento dell’amore non è molto radicato. Come in Ruanda, che veniva portato come esempio di evangelizzazione e che poi in tre mesi sono state uccise quasi un milione di persone. E lì non c’erano i musulmani. C’è molta strada da fare. C’è bisogno di un cambiamento del cuore e della testa. Il popolo centrafricano accusa sempre gli altri, la Francia, la storia per tutto ciò che non va. E aspetta sempre aiuti dal di fuori. Ora basta dare colpa agli altri, ora tocca a ognuno di noi, a me.